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EMDR e traumi – parla la Dr.ssa Silvia Giana

EMDR come trattamento del trauma Tutti noi, per il semplice fatto di vivere, siamo esposti all’eventualità di sperimentare traumi psicologici (dal greco “ferite dell’anima”). Esistono traumi che si possono definire “con la T maiuscola”: sono ferite importanti che minacciano la nostra integrità come calamità naturali, incidenti stradali, aggressioni, stupri, omicidi o suicidi di persone care, diagnosi infauste.   Ma vi sono anche traumi “con la t minuscola”, esperienze che sembrano oggettivamente poco rilevanti ma che possono assumere un peso soprattutto se ripetute nel tempo o subite in momenti di particolare vulnerabilità o nell’infanzia. E’ allora che umiliazioni, abbandoni, trascuratezza e paure possono lasciare il segno modificando non solo i nostri atteggiamenti, le emozioni e le relazioni con gli altri nel corso della vita ma, questa è la novità scientifica, imprimendosi anche in specifiche aree del cervello, come hanno dimostrato studi all’avanguardia nel campo della neurobiologia. Ciò vale sia per i traumi maggiori come per quelli minori   EMDR: le conseguenze a livello psicologico Grazie alle proprie risorse e all’aiuto del prossimo la maggioranza delle persone traumatizzate riesce a recuperare un nuovo equilibrio, ma ci sono ferite che continuano a sanguinare anche a distanza di anni. Nel caso dei traumi con la T maiuscola le persone possono reagire con “paura, senso di vulnerabilità e orrore”. Il trauma in questi casi è sempre presente, le sensazioni sono vive, e sembra che l’evento sia successo poche ore prima anche se risale a mesi o anni addietro. La sofferenza psicologica dei traumi “con la t minuscola” può essere di minore impatto ma ugualmente invalidante. Sensazioni di insicurezza, mancanza di autostima, colpevolizzazioni, attacchi di panico, ansie sono gli strascichi più frequenti. Avevamo già pubblicato una prima intervista sulle basi dell’EMDR.   EMDR: in cosa consiste la seduta? Inizialmente lo psicoterapeuta che ha ricevuto la specifica formazione in EMDR raccoglie la storia del paziente, identificando con lui gli eventi che hanno contribuito a sviluppare il problema: attacchi di panico, ansie, fobie. Sono questi ricordi che verranno elaborati con l’EMDR. Il paziente viene invitato a notare i pensieri, le sensazioni fisiche e immagini collegati con l’esperienza traumatica, nel contempo il terapeuta gli fa compiere dei semplici movimenti oculari, o procede con stimolazioni alternate destra-sinistra. Tali stimolazioni hanno lo scopo di favorire una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali e si basano su un processo neurofisiologico naturale, simile a quello che avviene nel sonno REM (fase del sonno in cui si sogna). Dopo l’EMDR il paziente ricorda ancora l’evento ma sente che tutto ciò fa parte del passato ed è integrato in una prospettiva più adulta. Dopo una o più sedute i ricordi disturbanti legati all’esperienza traumatica si modificano: il cambiamento è molto rapido, indipendentemente dagli anni che sono passati dall’evento, i pensieri intrusivi si attutiscono o spariscono, le emozioni e sensazioni fisiche si riducono di intensità.   Dietro le quinte: cosa accade nel cervello Le conferme da studi di neuroimaging Per guarire, la nostra mente mette in campo le proprie risorse. Perché, così come siamo dotati di un sistema immunitario che provvede a guarire le ferite fisiche, vi è anche un naturale e saggio sistema di riparazione delle ferite dell’anima. Gli eventi traumatici, in questi casi, non vengono cancellati ma rielaborati in modo adattivo, permettendoci di andare avanti spesso con risorse aggiuntive che ci serviranno per affrontare altre difficoltà. Il passato, in questi casi, resta nel passato e noi possiamo proseguire sul cammino della vita. Quando un trauma rimane irrisolto, invece, diventa parte di un circolo vizioso di pensieri, emozioni e sensazioni corporee disturbanti. Si è visto che i ricordi traumatici sono immagazzinati nel cervello in modo differente dai ricordi non traumatici. I primi si collocano soprattutto nell’emisfero destro, separati dai ricordi positivi come se fossero congelati in uno spazio e tempo diversi dal resto dei nostri vissuti. Qui continuano ad agire ma queste cicatrici sono in realtà il ricordo di ciò che è successo.     Approfondimento a cura della Dr.ssa Silvia Giana Psicologa specializzata in Psicoterapia

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Emicrania: sintomi e trattamento – ne parla il Dr Vincenzo Tullo

Emicrania: una malattia neurologica cronica e disabilitante ma curabile   L’emicrania è una malattia neurologica che colpisce principalmente, ma non esclusivamente, il sesso femminile nelle fasi centrali della vita. È una malattia complessa, con una forte componente genetica sulla quale si inseriscono altri fattori, legati principalmente allo stile di vita, che possono modificarla nel decorso e nella severità.   Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’emicrania rappresenta la terza patologia più frequente e la seconda più disabilitante per il genere umano. Una patologia neurologica seria, per il cui trattamento oggi sono disponibili diversi farmaci innovativi, specifici e selettivi.   Emicrania: quali sono i sintomi e come si sviluppa la malattia Il dolore emicranico ha una durata che va generalmente dalle 4 e alle 72 ore, è spesso unilaterale, pulsante, di forte intensità ed è aggravato dall’attività fisica. Al dolore si associano nausea, vomito, intolleranza alla luce e ai rumori, dolore cervicale, vertigini, deficit di attenzione e umore depresso. La fase dolorosa è seguita da una fase disabilitante, con stanchezza, inappetenza, vertigini, stipsi, diuresi, che può prolungare l’incapacità del paziente a riprendere le normali attività anche dopo il termine del dolore.   Alla base dell’emicrania c’è un meccanismo fisiopatogenico complesso. Un ruolo importante nella patogenesi dell’emicrania è rivestito da una proteina denominata peptide correlato al gene della calcitonina (CGRP), che dilata i vasi sanguigni e modula il segnale doloroso nel sistema nervoso. I livelli di questa proteina aumentano in modo significativo durante l’attacco di emicrania e ritornano alla norma con la risoluzione della cefalea.   I progressi della ricerca nel trattamento dell’emicrania Negli ultimi anni, la Ricerca ha portato alla scoperta di nuovi farmaci che costituiscono una svolta epocale nella cura di questa malattia: gli anticorpi monoclonali anti-GCRP. Si tratta di molecole derivate principalmente o interamente da cellule umane e progettate per bloccare la proteina CGRP impedendo così l’innesco della crisi emicranica. Attualmente sono disponibili tre anticorpi monoclonali: Erenumab, Galcanezumab e Fremanezumab, che vengono somministrati per via sottocutanea ogni mese o trimestralmente. Questi nuovi farmaci hanno molti meno effetti collaterali rispetto alle terapie di prevenzione attualmente disponibili, inoltre sono molto efficaci e non devono essere assunti quotidianamente. Si può associare agli anticorpi monoclonali o utilizzare da sola la tossina botulinica, una proteina che contribuisce a migliorare il trattamento dell’emicrania cronica. Nella pratica clinica, la tossina botulinica di tipo A viene somministrata secondo un protocollo di iniezioni standardizzato ogni tre mesi e in ambito ospedaliero in 31-39 siti specifici della testa e del collo.   Tuttavia, prima di impostare qualunque terapia di prevenzione per l’emicrania, occorre individuare e rimuovere, dove possibile, i potenziali fattori scatenanti e aggravanti di questa cefalea, che possono essere psicologici, ambientali, lavorativi, alimentari e farmacologici.     Approfondimento a cura del Dr. Vincenzo Tullo Medico Chirurgo specialista in Neurologia    

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EMDR a Morbegno – ce ne parla la Dr.ssa Silvia Giana

Cos’è l’EMDR come può aiutare negli stati d’ansia     EMDR: cos’è? L’ EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un trattamento psicoterapeutico scoperto, nel 1989, dalla psicologa americana Francine Shapiro. Utilizzato, in origine, per alleviare lo stress associato ai ricordi traumatici, ha avuto, negli anni, abbondanti ricerche cliniche che hanno coinvolto psicoterapeuti, ricercatori della salute mentale, neurofisiologi. EMDR: come può aiutare? L’approccio EMDR offre l’occasione non solo per rielaborare i traumi del passato, ma anche per potenziare le capacità personali e le risorse individuali, per affrontare le sfide della vita quotidiana con serenità e sicurezza, senza sentirsi in balia dei sintomi dell’ansia. Il lavoro psicoterapeutico prevede la rielaborazione di tutte quelle esperienze angoscianti legate alla storia della persona e che possono essere causa della sintomatologia ansiosa.   L’ansia è un’emozione universale che non sarebbe, di per sé, inadeguato provare, in quanto rappresenta una componente necessaria della risposta dell’organismo allo stress. L’ansia, o meglio la risposta ansiosa agli eventi, non ha sempre e necessariamente caratteristiche negative. L’ansia viene considerata patologica quando disturba, in misura più o meno notevole, il funzionamento psichico globale, determinando una limitazione della capacità di adattamento dell’individuo. Le componenti dell’ansia L’ansia sembra avere varie componenti: La componente cognitiva implica aspettative di un pericolo diffuso e incerto e una sensazione di pericolo imminente. La sovrastima del pericolo e la sottostima delle capacità di fronteggiarlo riflettono, nei disturbi d’ansia, l’attivazione dei cosiddetti “schemi di pericolo”. Spesso le persone che soffrono di un disturbo d’ansia hanno un pensiero catastrofico, pensando e prevedendo sempre scenari molto negativi. Dal punto di vista somatico (o fisiologico), il corpo prepara l’organismo ad affrontare la minaccia (una reazione d’emergenza): la pressione del sangue e la frequenza cardiaca aumentano, la sudorazione aumenta, il flusso sanguigno verso i più importanti gruppi muscolari aumenta e le funzioni del sistema immunitario e di quello digestivo diminuiscono. Dal punto di vista emotivo, implica una complessa combinazione di emozioni negative che includono paura, apprensione e preoccupazione ed è spesso accompagnata da sensazioni fisiche come palpitazioni, dolori al petto e/o respiro corto, nausea, tremore interno. Dal punto di vista comportamentale, si possono presentare sia comportamenti volontari sia involontari, diretti alla fuga o all’evitare la fonte dell’ansia. Questi comportamenti, quali l’ansia anticipatoria e l’evitamento, sono frequenti e spesso non-adattivi, dal momento in cui limitano gli spostamenti e il coinvolgimento in situazioni di vita o lavorative che la persona può vivere come ansiogene. In ogni caso l’ansia non sempre è patologica o non-adattiva: è un’emozione comune come la paura, la rabbia, la tristezza e la felicità, ed è una funzione importante in relazione alla sopravvivenza.     Approfondimento a cura della Dr.ssa Giana Silvia Psicologa specializzata in Psicoterapia

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Sindrome del tunnel carpale

Sindrome del tunnel carpale Tra le patologie di cui più spesso si parla, negli ultimi anni, c’è indubbiamente la sindrome del tunnel carpale. Sindrome del tunnel carpale: cos’è? La sindrome del tunnel carpale è una neuropatia. Appartiene cioè alla famiglia delle patologie risultanti da una compressione o un evento traumatico dei nervi periferici. A essere coinvolti, in questo caso, sono il nervo mediano e i nove tendini flessori delle dita, che si estendono dall’avambraccio alla mano passando in un canale del polso denominato, appunto, “tunnel carpale”.  Lo schiacciamento del nervo o una maggiore pressione producono i sintomi caratteristici di questa sindrome, tra cui riconosciamo formicolio, intorpidimento, bruciore e/o dolore al pollice, indice, medio e parte dell’anulare soprattutto durante la notte e la mattina al risveglio. Questi sintomi tendono ad aggravarsi di notte, probabilmente a causa di flessioni del polso per posture involontarie, o nei movimenti in cui è richiesta una flessione ripetuta e prolungata dello stesso. Nei casi più gravi, la sindrome del tunnel carpale si manifesta con deficit motorio (per esempio, la ridotta possibilità di muovere il pollice) o debolezza della mano, con difficoltà a impugnare gli oggetti.   Sindrome del tunnel carpale: quali sono le cause? Esistono sia condizioni “professionali”, legate cioè a lavori manuali e ripetitivi, che richiedono precisione o obbligano a posture non corrette. In effetti, la sindrome del tunnel carpale è inclusa nell’elenco delle malattie professionali approvato con il decreto ministeriale del 9 aprile 2008. Tuttavia, le sue cause sono molteplici e non sempre facilmente ascrivibili all’attività lavorativa. La pressione, o lo schiacciamento sul nervo mediano possono essere prodotti dalla tenosinovite, l’infiammazione della guaina che riveste i tendini flessori, dipendente a volte anche da disturbi di natura reumatica.   L’insorgenza di questa sindrome può essere favorita da fratture o lussazioni di polso, ma anche da disturbi della tiroide, dal diabete, o patologie reumatiche come l’artrite reumatoide. Persino la ritenzione idrica delle donne in gravidanza è considerata un fattore scatenante. La diagnosi viene effettuata con una anamnesi ed un esame obiettivo (il medico esamina il polso e la mano del paziente, gli chiede di descrivere i sintomi, verifica la funzionalità dell’arto e esegue alcune manovre locali) e con esami strumentali. Tra questi abbiamo l’elettroneurografia (l’esame che misura la velocità di trasmissione dei segnali nervosi), l’elettromiografia (attraverso cui valutare l’attività elettrica dei muscoli), i raggi X, utili quando si sospetta un esito di una frattura con malunion di radio o un disturbo articolare degenerativo, e a volte anche una valutazione con esami del sangue, nel caso in cui si sospettino probabili fattori scatenanti quali patologie come il diabete, l’ipotiroidismo, l’artrite reumatoide ecc. Il trattamento della sindrome del tunnel carpale è, nella maggior parte dei casi, chirurgico. L’intervento permette di “allargare” lo spazio all’interno del tunnel carpale ed è utile soprattutto nel caso di una sintomatologia aggressiva, che si protrae da tempo. Dopo l’operazione (che prevede il taglio del legamento che fa da “tetto” al tunnel dal lato del palmo della mano) il paziente può recuperare la piena funzionalità della mano, anche se per farlo potrebbero volerci mesi. Esistono diverse metodiche chirurgiche, compresa quella mini invasiva, eseguita mediante procedimento endoscopico, che garantisce un recupero molto celere nel postoperatorio, dovuto alla minima invasività del gesto chirurgico. Nel caso di una sintomatologia lieve, insorta da pochi mesi, è possibile anche una terapia conservativa (uso di un tutore notturno, fisioterapia, impacchi di ghiaccio, assunzione di antinfiammatori ecc.). Va da sé che, nel caso in cui la sindrome del tunnel carpale sia originata da patologie quali diabete, obesità, artrite reumatoide ecc., è fondamentale anche un inquadramento da parte di uno specialista, che valuti una terapia adeguata per contrastare questi fattori. Approfondimento a cura del Dr. Ghezzi Andrea Medico Chirurgo Specializzato in ortopedia e chirurgia plastica Chirurgo della mano

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